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CRITICA INERENTE LE OPERE DI ROBERTA SERENARI

intervista  Serenari artitude

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Titolo: INTERVISTA A ROBERTA SERENARI
Autore: Cristina Pontisso
Apparso su: ARTITUDE
del 23 Aprile 2011

Bambine bellissime con sguardi austeri e sorrisi algidi, sospese tra scenari metafisici e riferimenti simbolici


Questa intervista a Roberta Serenari ci conduce direttamente all’interno delle sue opere, in cui viene raccontata una realtà seducente quanto inquietante, attraverso una pittura ad olio velata di luce che crea atmosfere rarefatte in un gioco di rimandi che, con disincanto, tocca la stagione metafisica e surrealista quanto la pittura del Quattrocento.

Le protagoniste indiscusse dei teatri dell’assurdo della Serenari sono bambine che, come presenze oniriche in una sorta di dinamismo bloccato, si impadroniscono dell’attenzione dello spettatore con i loro sguardi taglienti e i sorrisi austeri, con cui svelano la personalissima quanto simbolica concezione che la Serenari ha del mondo dell’infanzia.

Interni neutri, con pochi riferimenti oggettivi, oppure stanze piene di oggetti assemblati in modo apparentemente casuale: tutto contribuisce a creare storie che lo spettatore deve interpretare, fiabe che scorrono davanti alle esasperanti prospettive di pavimenti a scacchiera o tra scenari surreali dove gli oggetti sono in equilibrio precario e ricchi di spunti simbolici come i manichini di dechirichiana memoria, il ricorrente uovo caro a Piero della Francesca e qui sempre protetto dalle mani delle bambine, o ancora oggetti tipicamente maschili come le cravatte mimetizzate nell’ambiente circostante e poi bambole, rose rosse, burattini, scatole, nastrini. Il colore rosso è sempre presente, metafora di femminilità e pericolo incombente come a segnare una linea di confine tra innocenza infantile e mondo delle donne che amano, diventano madri, fanno progetti. Così queste bambine sono in attesa della vita, ferme nel sogno del futuro, con i loro visi perfetti ma carichi di tensione emotiva, con i loro gesti calmi e consapevoli e gli abitini bellissimi del giorno di festa… inquietano perché quelle bambine sono le stesse che abitano dentro di noi, noi donne adulte dell’oggi di ieri.

Sei autodidatta, ma la tua tecnica è rigorosa e mirabile, cosa ti ha spinto ad intraprendere l’avventura artistica?

Ho avuto in regalo, ogni Natale e compleanno della mia vita di bimba acquarelli e scatole di matite colorate, da una mamma che, se è vero che le colpe dei genitori ricadono sui figli, ha voluto infondermi la sua grande passione, irrisolta, per la pittura.

Poi all’età di 10 anni l’apparizione: dopo un pomeriggio di giochi all’aperto, mi ritrovai nel salotto buono della casa di un mio compagno, dove, con enorme stupore, vidi una grande tela dipinta, ancora fresca di pittura, da cui proveniva lo sguardo complice e sorridente di una bellissima figura di donna a grandezza naturale… ne rimasi abbagliata. Tornando a casa, pensai che la mamma del mio compagno di giochi, poteva, solo con pennelli e colori, creare la bellezza e in cuor mio si formò la nuova convinzione che avrei voluto, ad ogni costo,  seguire anch’io quella magia…

L’ho seguita… nei Musei, nelle gallerie, nei libri d’Arte… e provando, sbagliando, da perfetta autodidatta e perciò imparando dai miei errori, continuo con passione e convinzione a seguirla ancora oggi…

Nei tuoi quadri ricorre sempre il tema della femminilità accompagnata da un sensazione di inquietudine: bambine ancora intente a giocare, vestite “a festa”, ma circondate da una moltitudine di oggetti strani; adolescenti in preda ai primi turbamenti interiori; donne che affrontano il tema della maternità trovandosi tra le braccia una bambola rotta… Cosa cerchi di raccontare con la tua arte?

Dipingere è come scrivere, l’immagine è una metamorfosi del pensiero, un linguaggio silenzioso dove ogni artista si riflette in ciò in cui si riconosce.

Il tema della mia pittura non è solo il “femminile”, ma è uno sguardo verso le emozioni ed il silenzio del turbamento dell’infanzia, del mistero dell’innocenza, e forse ancor più si esprime  nel  “senso dell’attesa”.

Ho la pretesa, dipingendo, di provare a fermare il tempo tra sogno e realtà, e di spiegare e ricordare un enigma che è la magia di un tempo intatto destinato a corrompersi con l’incontro del tempo adulto che verrà…

Insomma cerco un Eden perduto nel cono d’ombra che abbiamo dentro di noi, in contrapposizione con l’inferno che incombe, giocando con Nostalgia e Utopia forse…

L’uomo è per lo più assente, compare per indizi e accessori, come cravatte o bombette dimenticate qua e là nei quadri. Nel tuo ultimo dittico, Luna Park, appare un Re con una corona di carta che guarda beffardo verso lo spettatore. Perché nelle tue opere l’uomo ha un ruolo periferico ma allo stesso tempo fortemente condizionante per i personaggi femminili?

Come nel mondo reale, il femminile e il maschile sono complementari ed in opposizione, l’uno non esisterebbe senza l’altro..

Per dialogare con le immagini dei miei personaggi femminili, il discorso va in modo inevitabile sulla presenza-assenza della figura maschile.

Il faro di luce sulla scena del dipinto è diretto alla protagonista del racconto, ma nella spettacolare commedia degli effetti, amo perlustrare l’inconscio negli aspetti più reconditi,   mascherando l’inquietudine, l’incertezza del tempo negato, la pressione psicologica, il gioco che può sorprendere…

Tutto questo è reso più manifesto quanto più è sussurrato, accennato, non gridato.

Si può psicanalizzare un dipinto? Credo inevitabile che, come ha scritto De Dominicis “È il pubblico che si espone all’opera, non viceversa”, sia esattamente il contrario: chi guarda trova in esso gli accenni che, in quanto tali, non spiegano ma inducono a spiegarsi…

Qual è il rapporto tra i simboli che spesso utilizzi (la tazza, il manichino, l’uovo, la scacchiera…) e gli altri oggetti che appaiono nel quadro, come fossero casuali, ma che in realtà contribuiscono a una narrazione che a volte si fa inquietante?

Il simbolo è un elemento di comunicazione, è il tentativo di trovare e formulare la struttura universale che è in esso contenuta e ci rammenta che l’Arte è il luogo del “tutto possibile”, il simbolo  pone dubbi ma non dà risposte…

Spesso amo usarlo in pittura con la volontà di suggerire qualche verità che mi serve,  ma lasciare subito dopo lo spazio per dubitarne, costringere quindi ad un piccolo sforzo d’interpretazione, che mi pone però a distanza di sicurezza da chi osserva… poiché alla dichiarazione manifesta preferisco di gran lunga il fascino dei contorni sfumati…

Crei atmosfere rarefatte, oniriche e misteriose, grazie anche alle architetture di sfondo che aprono scenari surreali. Cosa significa per te immergere i tuoi personaggi in queste visioni?

Fa parte del mio “realismo magico”.

Ho conficcata nel cervello una scintilla di “surrealtà” che, per quanto minima, mi permette l’esercizio del racconto dall’equilibrio inedito.

Nello spazio della tela metto in scena  una specie di teatro, una  geometria simbolica che vuole separare i limiti inibitori tra ragione, realtà ed immaginario.

Solo in questo modo mi trovo in perfetto accordo con la mia visone del reale, una visione che ostinatamente vuole rappresentare una prospettiva illimitata, un possibile nuovo orizzonte,  ma che proprio per questo diventa per me realtà più grande, più pura e  più vera.



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