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CRITICA INERENTE LE OPERE DI ROBERTA SERENARI

bambina cappello cappotto

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Titolo: NELLE MOLTE STANZE DELLA MIA MEMORIA
Autore: Andretta Bertolini
Apparso su: Cataloghi vari
del 25 Maggio 1999


Come un album d’immagini oniriche sembra dipanarsi il percorso pittorico di Roberta Serenari che ci espone con forza cronologica la vita e le circostanze mutevoli del suo ideale spazio-tempo.
Le figure che lo abitano, a dispetto di un caro album di fotografie, non ostentano l’esigenza di farsi immediatamente accessibili per quanto perseguano con caparbia intenzione una loro intrinseca e profondissima logica.
Ce lo dicono i reiterati moduli cromatici e figurativi ed un esplicito lessico allegorico che ne articola l’organizzazione nella sua interezza mostrando una imprescindibile relazione tra forma e contenuto dove nulla è lasciato al caso, dove tutto per converso ci appare subordinato ad una precisa formulazione di senso con la quale silenziosamente intende riferire il “criptogramma” delle sue esperienze interiori.
Si tenta così di concordare gli opposti ed i contrari all’interno di una ininterrotta catena di sottili rapporti simbolici e dissonanti nei quali l’ombra rincorre l’abbraccio delicato e controverso con la luce, il passato ed il futuro convergono in un sospeso ed ermetico presente e il femminile tenta una eletta fusione primigenia con il maschile.
Comune denominatore dell’opera della Serenari è un perpetuo ineluttabile “traslato” vale a dire quella trasposizione che attribuisce ad un fenomeno sensibile il compito di rappresentare un fenomeno soprasensibile affidando alla “materia” il compito d’incarnare lo “spirito”.
Ma siamo consapevoli che il simbolo e l’allegoria veicolano sensi e sentimenti che il fruitore non sempre è in grado d’intendere se non per via istintiva o subcosciente.
A noi ora è dato entrare con discrezione in un sogno altrui dove colloquiano concisi e stranieri segni.
Qui, paradossalmente, nulla è subitamente chiaro benché tutto sia al suo posto:
tentare di dissolvere l’oscuro vocabolario non implica tradirne l’incanto o la poesia.
L’artefice del sogno ne è la custode ma per gentile concessione ci è stata offerta la grazia temporanea di attingere al cerchio aperto-chiuso di quel pozzo per cercare di intenderne, anche solo parzialmente, l’invisibile chiarità.
L’ausilio di una costante tensione fantastica trasporta l’intuizione dell’autrice in luoghi animati da tensioni avvincenti e compulsive, qualcosa è accaduto nelle molte stanze della sua memoria: cosa? Qualcuno le abita: chi? Un mondo che parla fuori, che pulsa dentro o solitario perfetto esorcismo che da esso si allontana?
Certo si palesa con discrezione una sensibilità introspettiva che si ostina a cercare la sua verità nella totale devozione a forze che si attraggono e si respingono in un conflitto permanente dove la caparbia verticalità di un’acerba adolescente si oppone alla rigida fisionomia terrestre e al soqquadro dei cieli…Alice nella trasfigurazione “poetica” delle sue molte facce non vuole affatto lasciare fuori il resto sgradito, anzi ci appare quasi in maiuscole preghiere come a voler declinare il puro ed oscuro sentire di quella particolare condizione femminile che progressivamente avvicina e riconosce come sua.
Siamo noi in affannosa ricerca del luogo segreto di Alice o non è piuttosto Alice che ci sta cercando ora con incantevole veemenza, ora con seducente ingenuità?
Ma l’anima e il corpo non sono cuscini dove poter riposare quietamente viceversa possiedono misteriose vibrisse dalle quali risulta impossibile emendarsi.
Per questo il serio lavoro di Roberta Serenari si impone come un’esemplare “confessione” che pur pacificandola momentaneamente, non può guarirla né tanto meno farla uscire dall’architettura del suo necessario tormento, pena l’epulsione crudelissima dalla sua stessa sondabile offerta pittorica.
La bassa ed alta marea imposta dalle alterne correnti del “fare” è l’unico  “sedativo”
Dove si disvela il profondo mistero dell’esser creatura, dove si esalta la solitudine confusa e cercata tra i molti possibili eteronomi.
Aleggia nel linguaggio non verbale dei suoi multipli corpi una nobile sensualità, un raccolto turbamento che digredisce verso una beatitudine appena appena pronunciata ma non marginale.
Quasi si ravvisa un fedele piacere nel coltivare il doloroso prodigio della propria invincibile e sana inquietudine poiché è lei il fulcro che spiega la totale affiliazione all’arte del dipingere.
La tela bianca è il suo specchio preferito, eppure ricerca incessante di altri possibili specchi, perpetua ricerca di un probabile interlocutore.
Il suo materiale pittorico si sostanzia in un dialogo ora vicino ora distante con l’enigma della sua memoria.
Senza alcuna via di scampo escono nutrite dall’ombra le sue figure e poi trasportate da un condensato amplissimo di luce e colore, divengono depositarie dell’unica caratteristica comune agli umani. La diversità appunto, che esse dichiarano con l’eloquente voce della loro singolare autenticità.

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