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CRITICA INERENTE LE OPERE DI ROBERTA SERENARI

bambina giochi cavallo

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Titolo: IL POTERE MAGICO DEL FEMMINILE IN DIVENIRE
Autore: Adriana M. Soldini
Apparso su: Catalogo
del 30 Aprile 2007

È seduta sotto un tavolo. Su un foglio di recupero, disegna linee essenziali con la mano insicura di bambina.
Sopra, le girano intorno le voci del gineceo. Appartengono alla madre e alle sue lavoranti. Sente la loro laboriosità, come il rumore aspro di una forbice che taglia un tessuto. Soprattutto, ascolta i loro discorsi: problemi, gioie, dolori. A volte, la madre le consola nel pianto.
Ha imparato tutto dell’universo femminile da quella posizione privilegiata. In quella stanza, all’interno del focolare domestico.
È qui, che va cercata l’origine dell’arte di Roberta Serenari. Le bambine che dipinge con raffinata maestria sono la rappresentazione della molteplicità del Sé. È sempre lei, è la sua infanzia. Ma non si deve incorrere nell’errore di considerare la sua opera prettamente autobiografica.
Nell’artista moderno, come in Roberta, è centrale la volontà di esprimere la propria interiorità e di individuare l’aspetto spirituale della vita. Così, va oltre i propri sensi, che limitano la percezione del mondo, per dedicarsi ad alcuni aspetti della realtà captati dall’inconscio, registrati a livello subliminale sotto la soglia della consapevolezza, per poi essere rivelati nei sogni, dove appaiono come immagini simboliche. Sono gli elementi non collegati all’esperienza personale di chi sogna a innalzare l’onirico all’universale. Come il corpo ha una lunga storia evolutiva, è logico pensare che anche la mente abbia seguito un simile percorso, attraverso lo sviluppo preistorico e inconscio della mente arcaica, fondamento della nostra psiche. Per Freud sono “resti arcaici”; Jung preferisce definirli “archetipi” o immagini primordiali. I simboli costituiscono le variazioni delle immagini archetipiche fondamentali e hanno la capacità di compensare la perdita dell’identità emotiva dell’uomo con i fenomeni naturali, riproponendoci la nostra natura originaria. Così, il sogno nella visione junghiana ha una funzione restauratrice: la produzione del materiale onirico ristabilisce il nostro equilibrio psichico.
L’interpretazione dei sogni e dei simboli richiede particolare capacità intuitiva e di immaginazione; così, è naturale considerarlo campo privilegiato di autori e artisti.
Le raffigurazioni dipinte sulle tele di Roberta sono spesso trasposizioni di visioni oniriche, colme di simboli sparsi in uno scenario surreale.
Nel rivelare la propria interpretazione, ogni artista si avvale dei parametri che gli sono peculiari. Roberta lo fa attraverso il femminile nel suo divenire. Il suo modo di vedere il mondo e di esprimere l’intangibile è attraverso lo sguardo indagatore delle bambine, sempre protagoniste assolute della scena.
Sono figlie di amiche, o di amiche delle amiche, le giovani modelle che invita nel suo atelier. Si chiamano: Eleonora, Giulia, Isabella, Sissy…
Appena varcata la soglia, la bambina si trova di fronte a un mondo così colorato e vivace da lasciarla a bocca aperta. Sembra un allegro mosaico, composto da decine di quadri, di pennelli; da tutte le tonalità possibili di colori a olio; da centinaia di libri, di fotografie; da alcuni oggetti di famiglia e da altri acquistati nei mercatini di antiquariato. E un numero impressionante di manichini, di legno, dipinti, decorati con il découpage, con il vestito dipinto sulla sagoma o addirittura scolpito nel legno e poi dipinto realisticamente, tanto da far venire voglia di toccarlo. C’è n’è uno in particolare, antico, che è stato impreziosito con l’aggiunta di un bustino di seta a fiori, ricco di nastrini, stringhe e merletti. Ma ci sono anche quelli interi, come quello proprio del pittore, su cui Roberta mette gli abiti e ne studia il modo in cui il tessuto si piega a seconda delle varie posizioni; poi, ce n’è un altro ritagliato nel legno e reso flessibile nelle articolazioni dall’innesto di viti. Questi, sono quelli “maschili”, perché Roberta li ha corredati di pregiate Regimental, le austere cravatte originarie del reggimento inglese, ricevute in dono da amici. La sua predilezione per i manichini viene da molto lontano: dall’attività della madre, sarta d’alta moda.
La presenza di tantissimi giocattoli ricorda il paese dei balocchi. In mezzo a tutti, troneggia il pinocchio a grandezza naturale su cui Roberta ha poggiato l’inseparabile bombetta, quasi oggetto-feticcio che appare, poco distante, in alcune sue foto, dove è indossato con disinvoltura e teatralità.
La bimba si guarda intorno. Vede il teatro dei burattini; il vaso di vetro colmo di dolciumi; un bambolotto curiosamente dagli occhi bendati con un nastro di raso; la giostra-carillon; tante bambole. Da dietro la poltrona, fa capolino un delizioso ombrellino in pannolenci, appartenuto alla bisnonna negli anni ’40, come suggerisce la decorazione astratta che vi è stata applicata.
La bimba alza lo sguardo e contempla i quadri dove si trovano raffigurati quegli stessi oggetti. Nella sua fantasia già se li immagina, sotto l’effetto di un incantesimo, uscire dalle tele, posizionarsi sopra i mobili e sul pavimento dello studio, per rimanere a far compagnia all’elegante signora che dipinge.
Lei, le sorride e la invita a cambiarsi. Aveva detto alla sua mamma di portarle il classico “abito della festa”. All’occorrenza, c’è anche un baule pieno di vestiti e accessori posto in un angolo.
La bambina si fa ammirare e mostra a Roberta gli oggetti a cui è affezionata che si è portata dietro, come richiesto. Poi, viene accompagnata in un angolo dello studio, lasciato intenzionalmente spoglio, perché destinato al set fotografico. Le luci sono già pronte e c’è una sedia.
All’inizio, la bimba è un po’ impacciata, perché non sa esattamente cosa fare, ma l’artista la guida e gradatamente nasce la complicità.
“Tieni i piedi uniti. Raddrizza la schiena.” – Così, Roberta la invita a prendere la posizione prima dello scatto.
A un certo punto, la piccola entra nel gioco e si lascia andare. Inizia a interpretare con naturalezza, a recitare la parte che Roberta di volta in volta le richiede. Decisamente, ci prende gusto.
Roberta passerà interi pomeriggi a vagliare le immagini scattate e a metabolizzare tutti i particolari: le posizioni; le luci e le ombre; le espressioni del viso; gli oggetti tenuti in grembo o sparsi vicino ai piedi, per poi decidere quale sarà la composizione del quadro.
Per lei dipingere è un lavoro da svolgere quotidianamente, finché la luce lo permette, interrotto solo dalla pausa pranzo. Sì, lei esige sempre quella naturale. Di rado, soprattutto d’inverno, quando il pallido sole cala presto, cede all’artificiale, ma il mattino dopo inevitabilmente deve apportare delle correzioni.
Lamenta che nelle mostre i suoi quadri perdono molte sfumature, che andrebbero ammirate all’interno di un giardino, all’aria aperta e che l’illuminazione asettica dei faretti va a nascondere con superficialità, rendendo l’essenziale invisibile agli occhi.
Dipinge a olio per scelta. L’uso di questi colori presuppone ritmi naturali. In un mondo che va sempre troppo di fretta e che esige tutto subito, dove abbondano gli acrilici, che asciugano veloci, permettendo all’artista di produrre più quadri in poco tempo, di soddisfare tutte le esigenze del mercato o di partecipare agli irrinunciabili appuntamenti espositivi, Roberta dipinge a olio con lentezza. Aggiunge strati di colore che vanno a uno a uno accompagnati ad asciugare per giorni, velature su velature. Nelle lunghe attese, volta il quadro per prendersi una pausa visiva. È come per uno scrittore, quando corregge le bozze del suo libro. A un certo punto le deve riporre nel cassetto per qualche tempo, altrimenti non riuscirà più a vedere gli errori.
C’è un’assoluta poesia accompagnata da una tecnica severa nel suo modo di stendere il colore. Come la precisione manichea nella resa delle pieghe dei panneggi; una cura sartoriale presa dalla madre. Un’incantevole armonia traspare dal passaggio tra luce e ombra sulla pelle vellutata delle bambine, che si sta appena accendendo di una delicata sensualità; così, come nei loro sguardi e nel loro modo di stare a occhi chiusi.
Nella ricca tavolozza di colori, tra le pennellate trasparenti o dense, nette o sapientemente sfumate, i colori dominanti risultano essere il rosso e il viola per il ruolo simbolico assunto.
Il rosso serve a sottolineare. Proprio come la matita rossa della maestra va a rimarcare errori e passaggi importanti, che meritano una spiegazione più dettagliata. Primo colore dell’arcobaleno, si dice che il rosso sia anche il primo percepito dai bambini. Ha un effetto eccitante e dinamico e la scelta di mostrarlo equivale a uno slancio verso la conquista. Mobilita tutte le energie, cui corrisponde un senso di forza e sicurezza. A volte, è il colore della femminilità. Sono rossi, i cerchietti, i fiocchi, le scarpine, i sandali della mamma. Altre volte, è il colore che serve a delimitare uno spazio, sta a indicarne i contorni; oppure, segnala il confine tra l’infanzia e l’inizio della pubertà, come In cerca di Alice.
Il viola è il colore preferito dall’artista, ma in genere anche dai bambini. E non è un caso. Colore che nasce dalla mescolanza tra rosso e blu, proprio della spiritualità, è la rappresentazione della metamorfosi, della transizione, del mistero e della magia. Simboleggia l’unione degli opposti, perché è al tempo stesso colore della mistica e della fascinazione erotica.
Sullo sfondo delle mura domestiche, le sue bambine appaiono molto composte, non sorridono; possono al limite accennare a una sorta di espressione di compiacimento come Sissy ne Il vestito della festa.
Non raccontano molto di sé, ma interrogano chi le guarda. È nei momenti di passaggio che Roberta le rappresenta. Sono quelli i momenti significativi in cui mostrano la loro spiccata personalità. Nel bene e nel male, come nel broncio e in una tazza rotta. Così le sue bambine, vengono rappresentate davanti alle prove, quasi a dei riti di iniziazione, come per mostrare la loro accettabilità nel mondo degli adulti, con cui continuamente si confrontano. Sono quelli i momenti in cui hanno bisogno di risposte.
Ha un’energia incredibile questa femminilità in fiore.
In Castelli in aria, è emblematica la figura di Isabella, surrealmente posta sopra una scatola aperta da cui spunta una cravatta, mentre nella mano destra ne tiene un’altra scoperchiata da cui escono altre Regimental. Sembra possedere il potere magico di far girare tutte le cose attorno a sé, contro ogni forza di gravità: la sedia, le palle colorate, l’uovo e la ciotola. Lei è consapevole, e il suo sguardo altero ne è la prova più lampante. A piedi uniti, inspiegabilmente stabile, allarga il suo abito con l’altra mano, come per dispiegare tutta la sua forza e mostrare il suo splendore. Tiene la presenza maschile sotto i suoi piedi.
Questa maestosità dell’infanzia è a volte amplificata dall’artista, inserendo la dimensione spazio-temporale. In questi casi, la composizione della scena viene strutturata come in un video, per fotogrammi (Piccola cena, Prima colazione) o per dissolvenza (Eventualità dell’attimo).
Uno sguardo tagliente, che non ammette repliche, è quello che Giulia interpreta ne La domatrice. È messa di profilo, con la testa girata a sinistra, come se chi la guarda non fosse degno di ammirarla frontalmente. Posta al centro, tutto le fa da contorno. Sono i giochi dell’infanzia; sono i simboli del maschile sconosciuto.
La scelta di metterla dentro un cerchio magico, che è la sua infanzia, produce un effetto spettacolare. In quanto forma avvolgente, il cerchio è simbolo di protezione; è un limite invalicabile posto come cordone di difesa per impedire ai nemici, alle anime vaganti e ai demoni di penetrarvi. Jung ha mostrato che il simbolo del cerchio è anche un'immagine archetipica della psiche in tutti i suoi aspetti; è il simbolo del Sé. La piccola strega è vestita come una fiera amazzone con il frustino come bastone del potere. Il fiocco rosso che raccoglie la lunga treccia ne tradisce la delicata femminilità. Unitamente ai guanti, i pantaloni attillati infilati dentro a stivali di pelle, chiusi da una forte fibbia, richiamano il fascino emanato dalla divisa che indossava il padre dell’artista; così, come l’espressione austera e autoritaria del viso.
Nell’arte di Roberta, gli uomini sono sempre lontani dalla scena. Esattamente, ricorda l’artista, come i ragazzi che aspettavano le lavoranti della madre, al termine della giornata; tutti fuori dalla casa, che restava sempre dominio assoluto della donna. Malgrado ciò, le sue bambine restano tese alla ricerca del rapporto con il mondo maschile, così misterioso e sfuggente. Sulle tele, dell’uomo se ne percepisce la presenza nell’assenza. Al suo posto, ci sono la bombetta, i manichini che indossano le cravatte. Tutto attraverso l’occhio femminile della madre, il centro del suo mondo: i manichini e gli accessori.
Nei rari casi in cui compare un uomo in carne e ossa, lo vediamo sempre mascherato: un variopinto arlecchino compagno di giochi, come nell’Invito, oppure l’ambigua figura con maschera da teatro che rappresenta L’uomo delle caramelle. Roberta ancora ricorda quella passeggiata serale di tanti anni fa, durante una vacanza al mare. Un muretto pieno di scritte e una in piccolo la colpisce come uno schiaffo: “Sono l’uomo delle caramelle e vendo stelle…”. La frase staziona nella sua mente e dieci anni dopo materializza la sua essenza sulla tela.
Caramelle, dolciumi, torte farcite sormontate da nuvole di panna montata e con l’immancabile ciliegina sopra. Spetta ai dolci, il ruolo di premio ambito o di quello più affascinante e intrigante rivestito dalla tentazione. Naturalmente, Roberta lo ha adattato all’età delle sue piccole interpreti. Tentazioni è proprio il titolo di una divertente tela, che raffigura un vaso di vetro pieno di dolciumi gommosi e friabili, dalle forme e colori invitanti, che sono quasi una tortura per la piccola Eleonora che sta di fronte. È evidente lo sforzo per cercare di resistere al desiderio, che sta a monte di ogni tentazione. Quasi, la bimba si rammarica che il vaso non sia almeno di ceramica. Non solo è costretta a chiudere gli occhi per non vedere, ma anche a tapparsi le orecchie. La tentazione ha una sua voce che viaggia su frequenze molto speciali.
Al contrario, Nell’altra stanza, Isabella vi ha ceduto allegramente, guardando attraverso la porta nella camera buia. È così svelato il segreto di una intimità, come gli oggetti sparsi per terra con noncuranza (le cravatte, la bombetta e
I sandali rossi) lasciano intendere.
Sono due gli oggetti dal profondo significato simbolico che Roberta fa tenere più spesso in mano alle sue bambine: l’uovo e la tazza.
Sin dalla preistoria, l’uovo è simbolo potente dell'universale. Porta in sé sia l'origine da cui tutto proviene che la ciclicità dell'eterno ritorno della vita. Oltre che del rinnovamento, per Eliade l’uovo è immagine e modello della totalità.
Lo ritroviamo, ancora oggi, presente come motivo di grande suggestione nei nostri miti e negli archetipi dei nostri sogni. Nei sogni esprime la complessità e la pienezza, la ricchezza e l'abbondanza.
Un potere ancestrale dato in mano a queste bambine, nel cui corpo già si va a formare quella struttura meravigliosa in grado di ricreare.
La forza di questo simbolo è tale che è stato raffigurato, fin dalla più remota antichità, nelle espressioni artistiche di ogni tempo.
Sovente il simbolo dell’uovo è associato a un elemento assiale verticale che ne indica il "senso", inteso sia come direzione della potenza che come suo motivo.
Nella pittura di Roberta Serenari, l’uovo evoca anche la famosa celebrazione di Piero della Francesca, autore della Pala Montefeltro (conosciuta anche come Madonna dell’uovo), una sorta di summa della sua arte e delle sue teorie scientifiche sulla prospettiva. Appeso ad una conchiglia, l’uovo di Piero richiama un’usanza, tipica nelle chiese orientali, come simbolo del mistero della nascita; mentre, nella chiesa occidentale è associato a quello della verginità di Maria e al momento della Resurrezione di Cristo. Il tema dell’ovale è ripreso nel volto (ab ovo, cioè alle origini) della Madonna (madre-terra-femminile) e nella curvatura dell’imponente architettura sovrastante (padre-cielo-maschile). Per rendere evidente all’osservatore l’armonia della composizione, Piero della Francesca, che era anche un matematico, situa l’uovo al centro esatto della pala. In tal modo, la perfezione geometrica dell’opera si realizza nella forma originale sospesa in equilibrio sulla testa della Vergine, a metà strada fra la nascita dell’uomo e quella del cosmo.
Nella pittura di Roberta, le bambine sono l’AXIS MUNDI, simbolica rappresentazione della concezione del cosmo e, in senso ampio, della capacità di andare oltre i limiti del mondo corporeo. Ne La stanza di Alice, Isabella rappresenta l’asse del mondo, come sottolineato dal filo rosso che si incrocia con il rosso del cerchietto sui capelli. La attraversa per la lunghezza, come se misurare lei fosse il parametro per misurare l’universo circostante. Pare un filo a piombo, con l’onnipresente uovo, che ne costituisce il peso; il centro della tazza sottostante ne è il punto di riferimento. Lei è perfettamente immobile, è in asse. Incrocia le mani sul grembo, per non interrompere l’armonia, e guarda con incanto il centro della tazza. Guarda l’incanto che è lei stessa.
La tazza richiama la forma del ventre materno. Infatti, a volte contiene l’uovo, come ne La bugiarda o in Prima colazione. Il recipiente è l’espressione dell’identità delle bambine e, quando è rappresentata frammentata, sta a indicare un loro tentativo di crescita.
Solo la tazza si può rompere, ma l’uovo resta sempre integro e saldo nelle piccole mani. Così, com’è incredibilmente in equilibrio sopra una sedia ne La stanza dei giochi.
Sotto ai piedi delle fanciulle, troviamo un altro importante simbolo: il pavimento a scacchiera. Oltre a conferire profondità alla scena, il rivestimento evoca primariamente il gioco. Soprattutto, sta a simboleggiare gli opposti che ci governano, quali il male e il bene, la vita e la morte, l’odio e l’amore, il conscio e l’inconscio, la realtà e il sogno. Il molteplice uso del simbolico contrasto tra il bianco e il nero risale fino all’antichità; lo si trova negli antichi luoghi sacri, nelle chiese medievali e nei moderni templi massonici. Ma, le scacchiere di Roberta, costituiscono anche gli innumerevoli quesiti antitetici che si pongono in modo ossessivo l’infanzia e l’adolescenza, e ai quali non sempre il mondo degli adulti sa rispondere. Al di sopra dei contrasti, il fascino dark della scacchiera richiama in assoluto il tema del destino.
Non è per caso che accanto a tanti simboli, ci siano anche altrettanti giochi, a volte intrisi loro stessi di un significato, che va oltre alla loro funzione. Jung ha scritto che il gioco è un buon ponte per entrare in contatto con l'inconscio, con quelle parti di noi che non possiamo leggere usando solo l'intelletto. Quando giochiamo ci liberiamo dai meccanismi difensivi, e finalmente risalgono quei contenuti persi nei meandri nella memoria.
C’è chi dice che la pittura di Roberta sia metafisica; chi surreale; chi la trova aderente al realismo magico. Sono solo contaminazioni.
Questo, e molto altro ancora, Roberta ha in comune con un artista che ama: Balthazar Klossowski de Rola, meglio conosciuto con lo pseudonimo Balthus.
Anche Roberta non ha mai aderito formalmente ad alcun movimento o corrente. Il fatto di essere fondamentalmente una autodidatta l’ha resa indipendente nelle scelte, rimanendo sempre fedele a se stessa. Invece, si è soprattutto ispirata ai grandi maestri del passato. Amante del Rinascimento, l’accomuna a Balthus, la sconfinata ammirazione per Piero della Francesca. Lui, estasiato dal viaggio in Italia del 1926, scrisse con trasporto al professor Strhol: “Il desiderio di venire fin qui a vedere le opere di Piero della Francesca mi ha perseguitato per gli scorsi cinque anni….. Ma adesso che meraviglia!”. Lei, dice di dovere al genio aretino il rigore formale che appare nei suoi quadri; il raggiungimento dell’equilibrio nella geometria degli spazi; il modo di rendere la sospensione del tempo, che pare quasi congelato. Proprio come in Balthus, i gesti sono sospesi prima che possano rivelare il loro intento.
Nell’atelier di Roberta, le tele vengono prese più volte nel tempo anche per minimi ritocchi. Allo stesso modo, Balthus non si stancava di riprendere i dipinti che stazionavano per anni nel suo studio, fino a ottenere l’effetto voluto.
La sua pittura è enigmatica. Il tacito interrogativo che le permea contribuisce ad accrescerne la suggestione. Come disse Balthus: “Dipingere non è raffigurare ma penetrare, andare al cuore del segreto. Guardare, osservare ed entrare: amare in realtà… cercare ‘altri splendori’.
Qualcosa di oscuro, di lontano e di profondo si concede, la pittura deve essere pronta ad accettare l’incanto.”
Roberta che ha scelto di raffigurare il femminile nel  momento di passaggio dall’infanzia all’adolescenza ha voluto rendergli onore con un suo quadro, ora esposto al Museo D’Arte Contemporanea FML della Fondazione Logudoro Meilogu a Banari (SS). Si intitola Omaggio a Balthus, anche se inizialmente aveva scelto La stanza rosa, per la tenue tonalità soffusa all’interno della camera che gli dona un che di polveroso, ma è solo un pretesto per renderlo eterno.
La posa della modella è la stessa del quadro di Balthus, che si vede riprodotto in piccolo sul tavolo posto in secondo piano. È qui, che spicca la maggior differenza tra i due artisti: lui, la rappresenta nuda; mentre Roberta, la riveste pudicamente.
Chissà cosa penserebbe il pittore (passato a miglior vita qualche anno fa), se potesse vedere il quadro di Roberta. Oltre ad apprezzarne l’autentico talento che vi è espresso, qualcosa suggerisce che non sarebbe in grado di sottrarsi al fascino incantato della sua donna in divenire.

 

 

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